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Senza vincere e senza perdere: storia di Andrea Dovizioso

«La vita, come una corsa di moto, è procedere per piccoli passi, aggiustamenti e rifiniture, sapendo che la perfezione non esiste». Andrea Dovizioso, Asfalto (Mondadori 2018)


Bene ma non benissimo. Si potrebbe riassumere con questa massima la storia di Andrea Dovizioso, un pilota che negli ultimi dieci anni di Motomondiale è sempre stato lì, presente, a lottare tra i migliori, senza mai riuscire ad esserlo però, il migliore.

Un riconoscimento che si è lasciato sfuggire per un soffio più volte, nonostante non gli sia mancata la possibilità, la voglia e la forza di lottare.

Il 2020 doveva essere il suo anno, hanno detto in molti. Con un campionato alterato a causa della pandemia, privato del suo pilota più titolato a causa di una caduta che potrebbe costargli la carriera, e caratterizzato dall’incostanza dei diretti concorrenti, il tre volte vicecampione del mondo doveva soltanto fare quello che aveva fatto gli anni prima: essere lì, primo tra i piloti normali, quelli che non fanno categoria a sé, dominando i quasi vent’anni di Moto GP. Perché tolti i Rossi, i Marquez, i Lorenzo e gli Stoner di turno, la lista ripartiva sempre e comunque da Andrea Dovizioso.

Anzi, a volte il pilota forlivese stava addirittura lì, tra quei giganti. Come nel 2011, quando arrivò terzo assoluto in sella alla Honda del team HRC che l’aveva già messo alla porta. O nel 2012, quando concluse con un quarto posto in classifica in sella alla Yamaha di un team satellite, andando meglio della seconda guida del team ufficiale della casa di Iwata. O nel 2017, quando il divario tra lui, secondo, e Marquez, primo, si fermò a soli 37 punti.


Indomito

Eppure nel 2020 il titolo non è arrivato. Una vittoria in Austria e un terzo posto a Jerez, dopodiché una serie di insuccessi che l’hanno portato quarto nella classifica finale, deludendo le aspettative sia dei fan che della Ducati, che sperava di cogliere il momento propizio per riportare la moto al successo dopo dodici anni di sconfitte. Così non è stato.

Mancava la testa, hanno detto in molti, forse per via della fine del rapporto con la scuderia bolognese. Una rottura tesa, arrivata a campionato appena avviato, inasprita da continue polemiche mediatiche e che, con tutta probabilità, non ha fatto bene a un pilota introverso, a cui piace tenere un profilo basso e lavorare in armonia coi tecnici ai box e la dirigenza.

Un pilota che raramente va oltre il suo limite senza avere una strategia, così da poter agire al meglio delle sue possibilità. Un pilota puntiglioso, pulito, calcolatore. Insofferente.

“Dietro a ogni sportivo c’è molta più sofferenza di quella che si vede”, dice in apertura di Undaunted (2020), il documentario che Red Bull gli ha dedicato, firmato dal regista Paolo Novelli.

Dovizioso infatti, a leggerlo o sentirlo parlare, sembra mal sopportare la spettacolarità mediatica che si è creata negli ultimi anni attorno al paddock; ma sembra mal sopportare anche la scarsa sensibilità del pubblico, dei giornalisti, e molto spesso degli stessi tecnici e ingegneri ai box, di comprendere gli sforzi dietro ai suoi risultati, e il valore che questi portano con sé. L’insofferenza dell’eterno secondo, in un mondo dipendente dall’estro della star, soprattutto dopo l’era di Valentino Rossi. E la stagione 2020 l’ha ribadito.

Il talento di Dovizioso è comunque sconfinato, dato che gli ha permesso di sopravvivere nella più alta classe delle competizioni motociclistiche per 12 anni – dall’esordio nel 2008 in Honda col JiR Team Scot, al 2020 con la Ducati dell’Ing. Dall’Igna. È sempre stato lì, a lottare con dei fuoriclasse che sembrano venire da un altro pianeta, e che non gli hanno permesso di strappare un titolo. Indomito, appunto.


Il cavallo bianco

Come racconta nella sua biografia, Asfalto (Mondadori, 2018), Andrea inizia a correre all’età di sette anni su una minimoto da cross, una Malaguti Grizzly, in una pista amatoriale tracciata su un terreno dietro casa dal padre Antonio, che era un crossista, e ogni domenica, col camper, portava la famiglia a seguire le sue imprese nei vari circuiti.

Quando Andrea inizia a gareggiare, il padre ne intuisce il talento e investe tempo ed energie per avviarlo alla carriera, insegnandoli due cose fondamentali per il suo futuro da pilota. La prima, tecnica, è come fare una staccata al limite, tanto da farla diventare un tratto distintivo e punto di forza della guida del Dovi.

La seconda, pratica, è quella di arrangiarsi con quello che passa in convento, o meglio, che passa ai box. Come sa chiunque segue il motorsport, ci vogliono molti soldi per gareggiare: acquistare la moto, i ricambi, la benzina, gli pneumatici e l’abbigliamento tecnico. Per coprire i costi o si hanno sponsor, o una famiglia facoltosa alle spalle, cosa che i Dovizioso non sono, specie dopo alcuni problemi personali, come il divorzio dei genitori e il fallimento dell’azienda manifatturiera di famiglia.

Le prime moto di Andrea sono dunque vecchie e tenute su con lo scotch. L’abbigliamento è a volte di qualche taglia più grande, ereditato dal padre. Ma questo non lo ferma, anzi, gli ha insegnato ad essere competitivo e vincente con quello che c’è.

Del resto, nei piccoli campionati è il pilota a far la differenza. La voglia di vincere ed emergere, tra i tanti giovani che sognano il motomondiale, è così forte da coprire i limiti dei mezzi, che a quei livelli non sono così sofisticati da avvantaggiare sensibilmente chi li guida.


Primi successi e delusioni

Dovizioso si fa notare nell’Aprilia Challenger, un trofeo interno al Campionato Italiano Velocità che si corre con le moto 125cc e 250cc prodotte dalla casa di Noale. Vi partecipa nel 2000, col team di Forlì RCGM, e vince. L’anno successivo, con la stessa scuderia, partecipa al Campionato Europeo Velocità, e vince ancora.

L’esordio nel Motomondiale, classe 125, arriva nel 2002, con una Honda, e dopo due stagioni di adattamento, nel 2004, vince il suo primo (e unico) titolo mondiale. La carriera è in ascesa.

Per il 2005 l’Aprilia gli propone di andare a correre per loro nella classe 250, ma rifiuta. Vuole rimanere con la Honda. Nell’idea di Dovizioso, cresciuto col mito di Michael Doohan e della NSR500, nelle corse bisogna sempre puntare al massimo e alla perfezione, e nel motorsport l’emblema del massimo e della perfezione è rappresentato dalla Honda. Perciò, dopo il titolo in 125, punta a ottenere quello in 250 sempre con la Honda, così da approdare direttamente in Moto GP nel team ufficiale: la HRC.

Il matrimonio tra i giapponesi e Dovizioso però non sarà perfetto. Durante la stagione in 250, il suo team (Scot Racing) sarà posto in secondo piano dalla casa madre, che punta tutto sull’astro nascente Daniel Pedrosa, al suo secondo titolo nell’anno in cui Andrea debutta nella nuova categoria, concludendo terzo, dietro un altro futuro fenomeno: Casey Stoner.

Il pilota spagnolo e quello australiano, l’anno successivo, 2006, passano alla Moto GP, lasciando campo libero all’italiano per la corsa al titolo. In pista però si presenta un altro fuoriclasse: Jorge Lorenzo, alla guida di un’Aprilia. I titoli 2006 e 2007 vanno a lui, e Dovizioso chiude con un secondo posto entrambe le stagioni, pur guidando una moto poco competitiva. Il polso c’è, come si direbbe, manca l’occasione.


Passaggio in prima classe

L’esordio in Moto GP avviene nel 2008, in Honda. Il primo anno con un team satellite, poi, nel 2009, in HRC, seconda guida al fianco di Pedrosa.

Nel passaggio di categoria Andrea abbandona il numero con cui ha corso fino ad allora, il 34, perché in Moto GP non si può usare. Quel numero è appartenuto a Kevin Schwantz, e la Federazione Internazionale Motociclismo ha deciso che per onorare il ritiro dal mondo delle corse del pilota statunitense, nessuno, in prima classe, avrebbe dovuto usarlo. Per lo stesso motivo non si usa nemmeno il 65 di Loris Capirossi, mentre il 58 di Marco Simoncelli, il 48 di Shōya Tomizawa e il 74 di Daijirō Katō non vengono utilizzati in rispetto della morte che questi hanno trovato in pista.

Dovizioso non è un fan di Schwantz. Come lui stesso dice, è un pilota con cui non ha nulla da che spartire, dato che l’americano era uno sanguigno. Privo di tecnica, istintivo, non temeva di cadere e rischiare. L’opposto di Dovizioso. La scelta del numero 34 fu più un tributo al padre Antonio, che lui sì, era un grande ammiratore di Schwantz.

Passa così al 4, un numero che secondo alcuni non porta bene, dato che rappresenta il primo escluso dal podio e Dovizioso, nella sua carriera, occuperà spesso quel posto: il più bravo tra i bravi ma il meno bravo tra i bravissimi. Il 4, nel 2013, col passaggio alla Ducati, diventa 04, in onore all’anno del suo titolo mondiale in 125.


Il difficile rapporto con Honda

Tornando al 2009, il rapporto tra la HRC e Dovizioso è teso. La promozione nel team factory è gravida di aspettative, dato che la casa di Tokyo è dal lontano 2002 che non vince come è abituata a vincere, cioè imponendo la sua superiorità tecnica sugli altri.

Dopo il passaggio di Valentino Rossi alla Yamaha, solo Nicky Hayden, nel 2006, è riuscito a portare il titolo in casa Honda. Il gruppo è alla ricerca di un nuovo top rider ma né Dovizioso né Pedrosa si dimostreranno all’altezza così, nel 2011, nei box arriva un terzo pilota, l’australiano Casey Stoner, campione del mondo con la Ducati nel 2008.

Il messaggio della dirigenza giapponese è indiretto ma chiaro: una squadra con tre piloti non è la regola ma l’eccezione, qualcuno dovrà trovare un nuovo team, e quel qualcuno è Dovizioso, un ottimo pilota ma in classifica sempre dietro Pedrosa.

Per Andrea, essere mandato via in quel modo dalla scuderia in cui aveva sognato di correre sin da bambino, è una grossa delusione. Si impegna, ma non raggiunge i risultati sperati, anche perché davanti a lui c’è sempre qualcuno in grado di guidare sopra le righe.

Per la stagione 2012 passa alla Tech 3, squadra francese capitanata dall’ex-pilota Hervé Poncharal insieme all’eccentrico capotecnico Guy Coulon. Un team a conduzione familiare, con pochi fondi e tanta passione, con cui hanno corso piloti come Xaus, Edwards, Barros, Melandri, Checa etc.

In quegli anni la Tech 3 utilizza moto clienti Yamaha, e l’obiettivo di Dovizioso è quello di fare una buona stagione, distinguersi, per poi passare alla moto ufficiale.

La buona, anzi, ottima stagione, ci sarà. Andrea riuscirà a ottenere un quarto posto assoluto. Davanti a lui due Honda e una Yamaha ufficiali (guidate dai fuoriclasse). Pur in sella alla moto di un team che non poteva permettersi di comprare dei freni nuovi o avere un camerino per i suoi piloti, Andrea è competitivo.

Ad essergli avverso, purtroppo, sembra essere il destino. Valentino Rossi, che nel 2010 era passato alla Ducati, dopo due stagioni disastrose decide di tornare alla Yamaha, azzerando qualsiasi possibilità per Andrea di passare al team ufficiale. Alla Honda invece, dopo il ritiro dalle competizioni di Stoner, hanno trovato un nuovo campione: Marc Marquez, un pilota capace di esordire e vincere il titolo nella classe regina a soli vent’anni, e di continuare a vincerlo per i successivi sei, aprendo di fatto una nuova era nella Moto GP e diventando uno dei piloti più titolati della storia del motociclismo; ma questa è un’altra, bellissima, storia.


L’ingresso in Ducati

Per la stagione 2013, Andrea firma con la Ducati, e ci passerà i successivi otto anni di carriera, ottenendo i migliori risultati per la casa bolognese da quando compete in Moto GP, se si esclude il mondiale vinto da Stoner nel 2008. E questo nonostante sia, come lui stesso dirà, il pilota “meno ducatista del mondo”.

Gli altri suoi compagni di squadra, nonostante sulla carta dovessero esser più idonei allo sviluppo della bolognese, fanno risultati peggiori. Nicky Hayden ha affiancato Dovizioso nel 2013, ma gli è arrivato dietro a fine campionato, come Carl Crutchlow nel 2014.

Jorge Lorenzo, tre titoli mondiali conquistati e unico pilota in grado di battere Rossi, Stoner e Marquez, arriva alla Ducati per due stagioni, nel 2017 e nel 2018, ma in entrambe le occasioni ottiene meno punti di Dovizioso, esattamente come Danilo Petrucci nelle successive due stagioni, 2019 e 2020.

Solo Andrea Iannone, nel 2016, riuscirà a concludere il campionato con più punti di Dovizioso ma per il resto, il pilota emiliano è sempre stato lì, davanti a tutti, a sviluppare una moto che, la prima volta che ci salì sopra, a suo dire, nemmeno curvava.

Grazie a un lavoro portato avanti insieme all’ingegnere Luigi Dall’Igna, giunto in Ducati nel 2014 per mettere ordine all’anarchia dilagante nel box e dare una direzione concreta al progetto della moto, la rossa di Borgo Panigale diventerà competitiva quanto le rivali giapponesi e forse più sofisticata da un punto di vista ingegneristico, ma ciò non basterà a far conquistare il titolo a Dovizioso, perché ora, passata l’era di Rossi e Lorenzo e con il ritiro di Stoner, la coppia imbattibile è un’altra: Marc Marquez e la Honda, che sembrano correre in un altro campionato, un’altra categoria.

Eppure Dovizioso è sempre competitivo. Sfiora il titolo nel 2017, chiudendo, per una caduta di troppo, a soli 37 punti dallo spagnolo. Conferma il secondo posto anche nel 2018 e nel 2019. In questi anni, in gara, è stato l’unico a tener testa a Marquez, attraverso battaglie indimenticabili, come quella in Austria nel 2019, con un sorpasso all’ultima curva ormai entrato nella storia.

Curioso, a proposito di quest’episodio, vedere i due discuterne subito dopo la gara, come mostrato nel documentario Undaunted, intorno al minuto 40:00. Lo spagnolo è felice come un ragazzino appena sceso da una giostra; Dovizioso è teso come una persona che ha appena sostenuto un’elevata carica di stress e ancora ne porta sul fisico le conseguenze.


Appuntamento mancato

Il 2020 doveva quindi essere il suo anno, e molti erano pronti a scommettere su di lui. Una stagione partita in ritardo, causa Covid, con diversi Gran Premi cancellati e altri spostati in periodi insoliti, quasi invernali, che hanno messo a dura prova le gomme. Ma soprattutto, caratterizzata dall’assenza di Marc Marquez. Durante il primo gran premio di Jerez de La Frontera infatti, a quattro giri dalla fine, dopo una vertiginosa rimonta a seguito di un fuori pista, il pilota spagnolo è stato sbalzato dalla moto e nella caduta si è fratturato l’omero, costringendolo a uno stop forzato per tutta la stagione.

In assenza del re, la lotta al trono si è fatta tesa, vivace e soprattutto imprevedibile, mostrando estri e limiti di ogni pilota e squadra, ma alla fine l’ha spuntata Joan Mir in sella alla Suzuki, ma anche questa è un’altra, bellissima, storia.

E Dovizioso? Perché nell’anno in cui doveva essere lì, a raccogliere i frutti di anni di sacrificio, lotte e lavoro a testa bassa, non si è fatto trovare pronto all’appuntamento con la storia?

Difficile saperlo con certezza. La sua biografia si ferma al 2018 – e ci chiediamo, a margine, che senso abbia scrivere un libro sulla tua storia quando ancora sei nel pieno dell’attività? –, perciò non è lì che si possono trovare e affrontare, a freddo, i risultati di una stagione appena conclusa.

In circa vent’anni di carriera, dalla 125 nel 2002 alla Moto GP del 2020, Dovizioso è sembrato un po’ il ragazzo sfortunato, quello che, come dice lui stesso, non si è mai giocato davvero il successo, vuoi per il suo carattere un po’ introverso e poco mediatico, vuoi anche perché, per quanto lavoro facesse e passione ci mettesse, i suoi risultati non sono mai stati eccelsi. Un pilota da podio, ma non da primo gradino, per citarlo ancora, in grado di adattarsi e portare a casa risultati con qualsiasi moto e team abbia corso.

La sua carriera però sembra dimostrare che nella vita ci vuole anche fortuna, trovarsi nel posto giusto al momento giusto, mentre Andrea è sembrato essersi spesso trovato nel posto giusto al momento sbagliato, o nel posto sbagliato al momento giusto. Del senno di poi, però, come si dice, sono piene le fosse.

Di una cosa siamo comunque, forse, certi: nel 2021 non lo vedremo in griglia di partenza. Non ha trovato, a suo dire, un team che gli permetta di lavorare e correre nelle condizioni che desidera, e ha rifiutato anche le proposte per fare il collaudatore.

Si prenderà un anno sabatico, dedicandosi alla sua prima e grande passione, il motocross, e noi gli auguriamo il meglio, sperando di rivederlo in pista e, soprattutto, sorridente.


[L’immagine di copertina così come quelle presenti nell’articolo, sono prese dalla pagina Facebook ufficiale di Andrea Dovizioso, perciò sono di proprietà del pilota]

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