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Un Big Mac con pollo è sempre un Big Mac?

In vista dei suoi 120 anni, diamo uno sguardo all’evoluzione del brand americano Harley Davidson, che negli ultimi 10 anni si è avventurato in nuovi mercati, ha prodotto modelli poco convenzionali per il suo DNA, e si è aperto al cambio di paradigma tecnologico.

Se avessi chiesto ai miei clienti cosa volevano, mi avrebbero risposto: un cavallo più veloce.

Così parlò Henry Ford.

Vera o meno che sia, quest’affermazione sintetizza una delle scommesse più difficili per un produttore: avere il coraggio di tradire le aspettative della sua clientela. Perché nel peggiore dei casi, si sbaglierà e si finirà in bancarotta. Ma nel migliore, si scoprirà una prospettiva diversa, e si starà un passo avanti alla concorrenza.

È una scommessa a cui non si sfugge. Prima o poi va fatta, perché i tempi cambiano, e con essi necessità, mode, tecnologie, leggi, mercati e via discorrendo.

Le colpe dei padri

Di questi tempi si può portare a esempio la scelta di diverse case motociclistiche che hanno tradito, se così vogliamo dire, le aspettative di una generazione di motociclisti cresciuti con determinati modelli o soluzioni meccaniche.

Molto spesso queste rotture sono state interpretate come un avido e goffo tentativo del costruttore di far profitti, snaturando il fascino di un’icona del passato, attraverso soluzioni tecniche e stilistiche moderne e radicalmente diverse dall’originale.

L’ha fatto la Ducati introducendo il motore V4 sul Multistrada e abbandonando il telaio a traliccio sul Monster.

L’ha fatto la Honda, progettando un bicilindrico in linea per il restyling della vecchia Hornet.

L’ha fatto la Yamaha, piazzando una carena sportiva su una MT-07 e dandole il nome della vecchia R7.

Non voglio qui addentrarmi nelle scelte di ogni singolo costruttore, c’è da dire però che per stare nel mercato è necessario vendere. E si vende solo se c’è qualcuno disposto a comprare. Ma chi compra oggi non per forza di cose compra anche domani, perché le persone crescono, cambiano gusti, tendono a idealizzare il passato che hanno vissuto e a diffidare del futuro che verrà.

E alla fine dei conti, i clienti sono un po’ come i prodotti che acquistano: prima o poi invecchiano, e si fanno da parte. Nel senso: se un’azienda mi conquista con ciò che produce, potrò garantirle di essere suo cliente al massimo per il tempo che starò in vita, al netto di mode, esigenze di vita, disponibilità finanziaria, e via discorrendo.

Dato che un’azienda in genere ha un ciclo di vita più lungo di quello del suo singolo cliente, deve continuamente guardare alle future generazioni che, in un modo o nell’altro, tenderanno a prendere le distanze da ciò che piace ai loro padri. Che sia per una presa di posizione o per un cambio di paradigma sociale, tecnologico, culturale.

Per farla breve: un’azienda con un futuro è quella che non fornisce (solo) risposte ai bisogni dei padri, ma anticipa, se non quando costruisce, i bisogni dei figli. Valeva ai tempi di Henry Ford, vale ai tempi del fast food e delle economie di scala.

Darwinismo su due ruote

Prendiamo a esempio uno dei marchi più tradizionali del settore moto: Harley Davidson. Dieci anni fa, quanti avrebbero scommesso che sarebbe stato tra i primi brand occidentali a puntare sull’elettrico? Quasi nessuno. Tant’è che quando l’ha annunciato in pochi l’hanno presa seriamente. E quando ha tolto i veli al primo prototipo di LiveWire, si è gridato alla lesa maestà.

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Eppure, più che la volontà di tradire la sua storia e i suoi clienti, la mossa elettrica di Harley è stata quella di un mammuth che cerca di scampare dall’estinzione. Il gesto ultimo di un processo darwinista di apertura e cambiamento, che coltiva nuovi clienti, non coccola i vecchi. Non perché li disprezzi, ma perché i vecchi clienti, per una questione anagrafica, stanno scomparendo.

Nel 2014 l’Harley copriva il 44% del mercato motociclistico interno americano. Cinque anni dopo, il prezzo delle sue azioni è calato del 21%, a seguito di un altrettanto marcato calo delle vendite. Perché?

Le motivazioni sono molteplici. Alcune esterne all’azienda, come la guerra commerciale sui dazi portata avanti dall’amministrazione Trump contro la Cina, o la recente pandemia. L’altra, più complessa e stratificata, riguarda proprio l’identità dei suoi prodotti.

Secondo alcuni analisti, l’Harley Davidson si è storicamente rivolta a un pubblico dall’indole iconoclasta (tarato sul modello di Peter Fonda in Easy Rider), se non quando machista e fuorilegge (tarato sul modello Hells Angels). Così lo stereotipo dell’harleysta che abbiamo tutti in mente è quello di un biker bianco di mezza età, barbuto e tatuato, con bandana e giacca in pelle, che percorre da solo o in gruppo le lunghe statali americane.

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Tra mito e leggenda ovviamente c’è di mezzo la realtà. L’utente medio che oggi acquista un Harley, in America, è un maschio bianco nato tra il 1967 e il 1977, con un reddito annuo di oltre 90 mila dollari, tendenzialmente conservatore e nazionalista.

Solo il 17% degli acquirenti ha meno di 35 anni. La percentuale scende ancora quando si parla di Generazione Z, che secondo alcuni sondaggi percepisce le moto non come un hobby (costoso quando si parla di Harley) o stile di vita, ma come un mezzo di trasporto alternativo all’auto.

Dunque la probabilità di diventare un futuro harleysta è direttamente proporzionale alla probabilità che tu nasca figlio di un harleysta – e che trovi un lavoro ben retribuito. Fuori da questa cerchia via via più stretta, i futuri e potenziali acquirenti vanno costruiti, proprio perché lo status symbol del marchio non sembra affascinare le nuove generazioni.

Harley è dunque al lavoro da molti anni nel tentativo di essere più inclusiva verso una fetta di pubblico che comprenda, oltre i baby boomer maschi, anche donne, ispanici, asiatici e afro-americani. Cioè un pubblico non mediamente americano. E per farlo ha lavorato su più fronti: si è inserita in nuovi mercati, ha prodotto modelli poco convenzionali per il suo DNA, e si è aperta al cambio di paradigma tecnologico.

Moto in cambio di mango

Il mercato indiano è il primo al mondo, con circa 20 milioni di veicoli venduti all’anno. È davanti anche a quello cinese. Tutti i più importanti costruttori mondiali si sono inseriti qui, e Harley non è stata da meno. O almeno, ci ha provato ma con risultati poco edificanti.

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Harley-Davidson India nasce nel 2010, a seguito di un accordo commerciale che vedeva il mercato indiano aprirsi alle moto di Milwaukee e il mercato americano aprirsi al mango indiano (sì, il frutto).

Nel giro di 10 anni però, il costruttore americano si renderà conto che le sue moto sono sovradimensionate, per prezzo e prestazioni, per quel mercato. Basti pensare che tra le 10 moto più vendute in India, quella con la cilindrata più alta è la Royal Enfield Classic 350.

Per mantenere l’esclusività del Made in America, Harley non produceva le sue moto in India, ma le importava direttamente. Così facendo, i prezzi già alti in partenza, si andavano a sommare al complesso sistema fiscale indiano. Risultato: i modelli di alta fascia sono arrivati a costare anche 88 mila dollari, cioè 41 volte lo stipendio medio di un indiano.

Per evitare di questi problemi, e per ridurre tempi e costi di importazione, Harley aprì una fabbrica di assemblaggio a Bawal in Haryana Nuova, dedicata ai nuovi modelli entry level (come la Street 750). Ma a listino costava sempre il doppio rispetto a un’equivalente Royal Enfield.

Insomma, i prodotti Harley non rispondevano minimamente alle esigenze della clientela indiana, che cerca mezzi di piccola cilindrata e robusti, idonei alla mobilità quotidiana più che allo status symbol e a lusso.

I produttori europei, come KTM o BMW, sono entrati nel mercato indiano intorno al 2010, attraverso partnership con produttori locali, per operazione di rebranding di moto di piccola cilindrata. Solo i giapponesi, o l’italiana Piaggio, che operano da decenni in quel mercato, sono in grado di competere soli, ma non vendendo Africa Twin, R1 o Tuono V4.

Così, nel 2021, dopo un anno di pandemia che ha dato il colpo di grazia, Harley ha lasciato l’India, e con lei sono rimasti appesi all’amo i sogni di quei pochi harleysti locali che hanno creduto nel marchio, investendo tutti i loro risparmi nell’aprire una concessionaria o anche solo acquistare una moto.

Per farla breve: vendere un Big Mac in una nazione dove la mucca è considerata un animale sacro, non si è rivelata una mossa vincente.

The Pepperoni Pizza

Diversamente è andata in Europa, dove il mercato Harley è già presente e consolidato, benché circoscritto a una nicchia di fedeli. L’obiettivo qui è stato quello di espandere la propria utenza, entrando in diretta concorrenza con i marchi più prestigiosi del settore, attraverso una variante americana del principale piatto europeo.

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L’arrivo della Pan America ha segnato una svolta nel tradizionale corso della storia del marchio americano. E da molti è stato visto come un tentativo della casa di seguire le tendenze del ricco e sofisticato mercato motociclistico europeo, affascinato in questi ultimi anni dai SUV a due ruote, sempre più grandi e performanti. È certamente vero. Ma definirlo tradimento è forse azzardato.

Questo modello vede compimento sotto l’amministrazione di Jochen Zeitz, ex amministratore delegato Puma, noto per aver varato il piano aziendale The Hardwire, con cui si sta cercando di rimettere in carreggiata il marchio dopo il fallimento indiano e il disastroso quinquennio 2015-2020. L’obiettivo, ancora in corso, è focalizzarsi sullo sviluppo di modelli redditizi per mercati amanti della tradizione motociclistica americana.

Nel presentare la Pan America, Zeitz disse una cosa corretta, o forse onesta: l’Harley Davidson ha da sempre nel suo DNA la vocazione al turismo avventuriero (e un film come Easy Rider, aggiungo, lo dimostra). Cioè che gli mancava era una moto (e un motore) che potesse dimostrarlo. Una moto in grado di competere direttamente con i modelli di punta del segmento ADV, e dunque che fosse appetibile a una fetta di clientela a cui lo stile Harley piace, ma cerca una moto tecnologicamente e stilisticamente al passo coi tempi. E la Pan America lo è. Tant’è che l’unica cosa in comune che ha con una tradizionale Harley è l’architettura a V del motore, il disegno del cupolino, e il fatto che sia made in America. Il motore, il Revolution Max, è prodotto a Milwaukee. Le moto sono assemblate a York, in Pennsylvania.

La Pan America ha espanso il bacino del target Harley, perché è un prodotto che risponde alle esigenze di un pubblico che, per gusti, è lontano dalla sua tradizione, ma che per fascia socio-economica, forse non si discosta troppo.

Le moto ADV sono il top di gamma di ogni casa motociclistica, non tanto in termini di sportività, ma di possibilità e ambizioni. Sono le moto totali: da usare nel tragitto casa-lavoro, per divertirsi sui passi di montagna o per girarci il mondo. Le ADV sono grandi sotto ogni aspetto le si guardi: idealmente, per ciò che promettono di fare. Fisicamente, data la loro stazza e cubatura. Economicamente, dato i costi d’acquisto e gestione.

Insomma, per farla breve sono moto per motociclisti navigati e con un portafoglio importante (per quanto le mille tipologie di finanziamenti in fase d’acquisto ne permettono l’acquisto a chiunque abbia in mano una busta paga).

Il mercato europeo dei modelli top di gamma però è saturo, sia di vendite che di marchi e modelli. Non ci si fanno i grandi numeri. Per capirsi, nel 2021 in Italia sono state vendute 468 Pan America. Nello stesso anno sono state vendute 6.460 BMW R 1250 GS. Nel primo trimestre del 2022, Harley ha venduto 45.200 moto, di queste solo il 13% in Europa.

Capitan America: operazione rinascita

Per questo col piano The Hardwire, proiettato sino al 2025, Harley ha ripreso in mano anche il discorso sull’elettrico, che sembrava essersi arenato nel poco (scusando il termine) elettrizzante progetto LiveWire.

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L’obiettivo, in questo campo, è quello di conquistare la leadership del settore, se non a livello mondiale, almeno nel suo mercato di riferimento: quello americano.

Ma se per la Pan America si trattava fondamentalmente di riprogettare in chiave diversa una tradizionale moto con motore a combustione, con l’elettrico si tratta di sviluppare un mezzo radicalmente diverso. Non solo a livello tecnologico, ma anche culturale, perché si rivolge a una generazione di motociclistici agli antipodi rispetto a quello a cui Harley si è sempre rivolta. Un pubblico più attento alle questioni ambientali, meno interessato all’ideale della motocicletta come stile di vita. Ma soprattutto abituato a processi di acquisto e informazione nuovi.

Sul lato culturale credo che Harley Davidson stia lavorando ancora oggi sulle modalità di conquista dei suoi futuri motociclistici. Ad esempio abbiamo visto Capitan America cavalcare una LiveWire nei film sugli Avengers.

Sul lato tecnologico invece, il discorso parte nel 2014, quando bussa prima alle porte di Mission Motorcycle e poi, qualche anno dopo, a quelle di Alta Motor.

Alta e Mission sono due dei tanti fiori all’occhiello che l’industria motociclistica californiana ha visto nascere e morire nel giro di un decennio, sulla scia dell’entusiasmo finanziario creato da Tesla intorno ai veicoli elettrici. Queste piccole start-up su due ruote sembravano pronte a rivoluzionare il settore, portandolo a fare quel salto di credibilità che ancora oggi manca. Purtroppo non ci sono riuscite, ma Harley oggi sembra essere una delle poche realtà ad averne preso l’eredità.

Sulla storia di Alta e Mission ritorneremo con un altro articolo. Chiudiamo qui invece col progetto LiveWire.

Pesce grande mangia pesce piccolo

La prima versione della LiveWire è stata presentata come prototipo nel 2014. La base tecnica era quella della Mission R/RS, una superbike elettrica realizzata dalla Mission Motorcycle, azienda nata nel 2007 a San Francisco e collassata su se stessa nel giro di 10 anni, a causa di scissioni interne, idee confuse e investimenti falliti. La prima LiveWire aveva un motore capace di erogare 74 cavalli, un’autonomia di circa 100km e una ricarica di 3,5 ore. Numeri poco performanti per entusiasmare il pubblico, tant’è che il progetto rimase in fase prototipale fino al tardo 2018, quando ricomparve a EICMA in un sostanziale aggiornamento.

A differenza del primo modello presentato, il secondo prometteva una potenza di ben 105 cavalli con una autonomia di 250km. La base tecnica era stata sviluppata in collaborazione con Alta Motors, casa motociclistica californiana specializzata nello sviluppo di moto da cross elettriche, che tra il 2016 e il 2018 sembrava pronta a rivoluzionare il settore, tanto da portate le case costruttrici americane a diventare leader di settore, spodestando gli storici costruttori europei e giapponesi, come stava facendo Tesla nel comparto auto.

Harley strinse una partnership con Alta, per lo sviluppo della sua linea elettrica. L’accordo durò appena sei mesi, poi Alta finì in bancarotta, come già Mission prima di lei.

La storia della dipartita di queste due aziende è curiosa e fonte di speculazioni varie. Secondo l’ex CEO di Mission, Derek Kaufman, la causa del fallimento della sua azienda è da imputarsi ad Apple, che portò via i migliori ingegneri della compagnia, lasciandola con un comparto R&D debole e poco appetibile per gli investitori. L’azienda di Cupertino infatti, tra il 2015 e il 2018, stava lavorando allo sviluppo della sua auto elettrica a guida autonoma, e fu accusata di “rubare” ingegneri e progettisti alle piccole start-up. Ovviamente non ci sono prove, e come già sottolineato dal giornalista Jensen Beeler, il fallimento di Mission è dovuto a una cattiva condotta dirigenziale.

Allo stesso modo c’è chi accusa Harley di aver “ucciso” Alta, per sottrarle i brevetti aziendali. A riprova di ciò ci sarebbe il fatto che l’accordo tra le due parti durò appena sei mesi (tra marzo e settembre 2018), a termine del quale Harley interruppe la partnership e aprì il suo centro di ricerca e sviluppo sull’elettrico nella Silicon Valley. E un mese dopo (ottobre 2018) Alta fallì, nonostante a inizio anno fosse in ascesa vertiginosa.

Per qualcuno Harley si “mangiò” Alta, impedendole di trovare nuovi finanziatori. Per qualcun altro, Alta si era focalizzata su un mercato altamente ristretto: quello delle competizioni da cross, i cui numeri di vendita non ripagavano gli investimenti fatti. Harley se ne accorse, e si ritirò prima che l’implosione di Alta danneggiasse anche lei. Ma questa è un’altra storia.

Leggi anche: Alta Motors: una storia americana

La LiveWire nel frattempo raggiunse il mercato, a un prezzo… non proprio alla portata della fascia 20-35 che la HD cercava di conquistare: circa 30 mila dollari. Difatti i primi modelli commercializzati furono acquistati da attempati harleysti, e se ne vendettero appena 400.

Per tirare le somme

Col piano The Hardwire, il marchio LiveWire è stato scorporato dal brand Harely Davidson. Grazie a un accordo con AEA-Bridges Impact Corp e Kymco, è stato quotato in borsa e posto a rappresentare il primo veicolo di un progetto quinquennale (da qui al 2026) per lo sviluppo della mobilità elettrica Harley, che comprende un modello più piccolo che arriverà nel 2023, la LiveWire S2 Del Mar, ed anche biciclette elettriche.

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La Harley classica intanto si è focalizzata sullo sviluppo dei suoi modelli di punta, posizionandosi sempre più come marchio esclusivo, apparentemente abbandonando l’idea di modelli entry level di fascia bassa, come la Street 750. Voci dicono che stia sviluppando un modello 350 per il mercato cinese, forse facendo sua la lezione appresa in India.

Intanto la Pan America fa ottimi numeri negli USA, ed è l’Harley Davidson più venduta in Italia, ma si parla di poche centinaia di unità, così come per tutte le Harley nel nostro paese, come si vede da questa classifica. Forse anche per questo che l’azienda sta puntando molto sui PopUp Store Harley, cioè boutique focalizzate sull’abbigliamento lifestyle del brand, indirizzati non tanto a motociclisti in cerca di abbigliamento tecnico e accessori, quanto a un pubblico ampio, amante del marchio o del mondo che rappresenta, a prescindere che guidi o meno un Harley.

La cultura motociclistica americana, a differenza di quella più propriamente pop (film, musica, letteratura, arte), fuori dall’America fa fatica a ritagliarsi una posizione di prim’ordine. Avere il coraggio di tradire le aspettative della propria clientela, per un brand come Harley, che della tradizione ha fatto la sua vocazione, è una necessità più che una scelta, che ne va della sua stessa sopravvivenza. E dunque sì, signora mia, non ci sono più le Harley di una volta…

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