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Che cosa critichiamo quando critichiamo la MotoGP?

Le opinioni valgono quel che valgono, ma alcune sollecitano un certo imbarazzo. Perché ledono la credibilità di un’intera categoria di professionisti, oltre che quella di chi li esprime. Ma di questa mi interessa meno. Mi interessa semmai capire perché certo giornalismo non si sforzi di andare oltre la chiacchiera che presta il fianco al gioco della polemica fine a se stessa.

Di recente, su una nota rivista di settore, è apparso un editoriale che sostiene come la MotoGP odierna sia una competizione incapace di suscitare emozioni, perché soffocata da logiche di marketing e dal politicamente corretto. In altre parole, il paddock è pregno di “buonismo” e in pista corrono “ragazzini educati” e “ubbidienti”, non più “gladiatori”.

Ho provato a dare diverse chiavi di lettura a quanto letto: scherzo, provocazione, abbaglio, nostalgia, cattivo gusto. Ma non c’è stato verso di trovarne una che non mi facesse sentire offeso e insultato.

Offeso come appassionato di uno sport non esente da difetti, ma nel quale l’assenza di “gladiatori” è forse il minore dei problemi. Al più caro solo a chi concepisce il motorsport come una questione di machismo e spacconaggine dentro e fuori la pista.

Insultato come lettore, perché l’uso di parole-etichetta come buonismo, logiche di marketing, politicamente corretto, denotano povertà di argomenti nell’analisi della MotoGP attuale, e mancanza di rispetto verso chi legge. Parole figlie di un giornalismo pigro, che parla alla pancia più che alla testa dei lettori.

Eppure l’opinione partiva da un punto condiviso da tanti. La MotoGP sta attraversando un generalizzato calo di interesse. Dorna e FIM si stanno dimostrando poco capaci di gestire questa situazione. Le cause sono varie e complesse. Ma sostenere che la mancanza di spettacolarità e attenzione sia dovuta a piloti troppo educati, e a non meglio definite logiche di marketing, mi sembra alquanto sbrigativo e superficiale.

Questione di tempi

Oggi che scrivo, l’ultima gara disputata è stata quella di Philip Island 2022. L’ottavo classificato, Johann Zarco, ha concluso la gara in 40 minuti e 53 secondi. Dieci secondi più lento di Marc Marquez nel 2019, quando concluse la gara in 40 minuti e 43 secondi.

Un abisso. Ma Marquez, prima dell’infortunio, era un pilota inavvicinabile. Monotematizzava i risultati delle gare e offuscava tutto ciò che succedeva dietro di lui. E il risultato di Philip Island nel 2019 non è stato nemmeno il suo meglio. Nel 2015 concluse la stessa gara in 40 minuti e 33 secondi. Un risultato ancora imbattuto.

La sua recente assenza però, e il ridimensionamento prestazionale post-infortunio, ha dato spazio anche al talento altrui. Ad esempio, lo stesso Zarco, come detto ottavo classificato a Philip Island 2022, è stato 2 secondi più veloce del secondo pilota più veloce in pista del 2019, Cal Crutchlow, che terminò la corsa in 40 minuti e 55 secondi. Ciò significa che nel 2022, otto piloti sono andati più forte di Crutchlow nel 2019, che arrivò secondo.

Sempre a Philip Island 2022, la Q2 ha visto 12 piloti chiudere il giro in meno di un secondo. Primo Martin, con 01’27.767. Dodicesimo Viñales, con 01’28.765. Nel 2019 il gap era di circa 1 secondo e mezzo. Nel 2018 di oltre 3 secondi.

Se torniamo al 2015, quando in pista c’erano piloti come Marquez, Pedrosa, Lorenzo e Rossi ancora in forma, il gap tra il primo classificato (Marquez) e il quindicesimo (Miller) è stato di oltre 40 secondi. Il gap tra il primo e il quindicesimo classificato di Philip Island 2022 è stato di soli 19 secondi.

Oggi i fuoriclasse in pista non esistono, vero, ma il livello medio dei piloti non si è abbassato. Semmai si è livellato, ma non al ribasso. I tempi di percorrenza e velocità media sul giro non sono calati, sono cresciuti. E le gare sono diventate imprevedibili. Negli ultimi tre anni ben 15 piloti diversi hanno vinto un Gran Premio della MotoGP, e il campionato è stato vinto da 3 scuderie e 3 piloti diversi. (E se nel 2022 vince Bagnaia, scuderie e piloti diversi salgono a 4 in 4 anni). Una varietà mai vista in MotoGP, dove a dominare e vincere, salvo poche parentesi, sono state sempre due case motociclistiche (Honda e Yamaha) e due o tre piloti (Rossi, Lorenzo e Marquez). Guardate l’albo d’oro.

Con questa varietà, perché la MotoGP attuale dovrebbe essere meno emozionante rispetto a quella di ieri? Se si cerca il fenomeno che asfalta tutti gli avversari, lo capisco. Ma allora si vuole l’idolo da tifare, non lo sport da seguire. E in ogni caso, tutto ciò ha poco a che fare con le logiche di marketing e col politicamente corretto.

Questione di valvole

Per qualcuno l’imprevedibilità dei risultati e il livellamento delle prestazioni, è da imputarsi all’evoluzione delle moto. Ed è vero. Le moto di oggi sono più performanti, in termini di potenza e guidabilità. Permettono traiettorie più precise, staccate più potenti e uscite di curva più rapide, grazie a sofisticate soluzioni ingegneristiche: alette, appendici, cucchiai, abbassatori.

Ma il prezzo di questo incremento prestazionale, è inversamente proporzionale al funambolismo dei piloti in pista. Negli ultimi anni diversi piloti hanno evidenziato la difficoltà nel fare sorpassi, staccate e traiettorie creative, senza il rischio di finire penalizzati o a terra. E per rendersene conto basta guardare una gara della Superbike subito dopo una della MotoGP.

L’introduzione dell’approccio ingegneristico derivato dalla Formula 1 non è stato, a detta di tanti, una buona idea. Lo sviluppo di una moto è di fatto in mano agli ingegneri, e i piloti di oggi sono meno responsabili di un successo. Ma in favore di questi ragazzi, possiamo dire che più una moto è sofisticata, più è complesso per il pilota e il team settarla al meglio per una gara. Perché i parametri su cui intervenire si moltiplicano, e non sono tutti gestibili dal solo polso del pilota.

Mai come oggi dunque, una vittoria in MotoGP è una vittoria corale, di squadra, e non vincolata all’estro del singolo pilota. Il pacchetto moto-pilota-team è fondamentale, e sta prevalendo sulla logica del pilota che guida sopra i limiti del mezzo. Per quanto ancora esista e sia necessario un pilota che fa la differenza, nella corsa al mondiale premia la costanza del pacchetto.

L’era dell’epicità è forse al termine, ma perché questo dovrebbe rendere meno divertenti le gare e le vittorie? Ripeto, se piace il fenomeno che asfalta tutti i concorrenti, lo capisco. Ma allora si vuole l’idolo da tifare, non lo sport da seguire. E in ogni caso, tutto ciò ha poco a che fare con le logiche di marketing e col politicamente corretto.

Questione di soldi

Marketing è un’espressione che vuol dire tutto e niente. Definire il marketing è come definire l’etica, la morale o la fede. Tutto è relativo. Il marketing è uno strumento. Ma è anche un obiettivo, un processo, una disciplina, uno stile, un’estetica. E per qualcuno anche una botta di culo. Le logiche del marketing sono molteplici e differenti tra loro. Per questo “logiche di marketing” è una espressione plastica, priva di significato tangibile e buona per dire tutto e non dire nulla. Quali sono le logiche di marketing che sottendono alla MotoGP?

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Le più evidenti sono quelle che vedono la competizione copiare le strategie che hanno portato alla crescita mediatica della Formula 1. Ma quanto influiscono sullo spettacolo finale? Tutto e niente.

Ad esempio, la docu-serie MotoGP Unlimited, ricalcata sul modello della docu-serie Drive to Survive, è un prodotto innocuo. Sta lì, fa il suo, al massimo offende il buon gusto cinematografico, ma niente più. Aggiunge un po’ di colore e dramma alla narrazione di uno sport da sempre relegato e indirizzato alla sua nicchia di riferimento. È un male? Dire di no. Anzi, se porta qualche nuovo spettatore, è una cosa positiva.

Allo stesso modo è innocuo, benché di cattivo gusto, l’inserimento di Gas Gas in griglia per il 2022. L’impatto sui risultati dei gran premi sarà pressoché nullo. Al più farà confondere qualche spettatore poco attento, con tutto quel rosso sulle carene. Ma con rispetto parlando per il marchio, Gas Gas sta alle competizioni su pista come Ducati a quelle su terra. Si tratta di una pezza per coprire l’uscita di Suzuki dai giochi, questa sì una perdita importante.

L’inserimento delle Sprint Race il sabato è invece una logica ambigua. Se contribuiscono a riempire spalti e spettatori TV il sabato, si direbbe positiva. Il problema è che sono state inserite senza consultare i piloti, cioè quelli che poi le sprint race le devono fare. Si raddoppia lo spettacolo, ma si raddoppia anche la possibilità di farsi male. Perché le gare sono reali, non messe in scena. Quindi, al netto dei giudizi, è una potenziale logica positiva solo per lo spettacolo, ma è una logica negativa per chi poi compete: piloti e team.

In ultimo i team radio. Per quanto possa essere al limite definirla una logica di marketing, è senza dubbio negativa. Perché, come già evidenziato dallo Youtuber The Talking Helmet, sposteranno la responsabilità di una vittoria dalle mani del pilota a quelle del muretto, danneggiando lo spettacolo molto più della fantomatica “elettronica” o “ingegnerizzazione”.

I team radio toglieranno al pilota il libero arbitrio. Quando sale in sella e abbassa la visiera, il pilota è solo. Tra lui e la vittoria c’è solo la sua capacità di interpretare la gara, tra riflessi, coraggio e concentrazione. Non c’è nessuno che gli suggerisce dove e quando sorpassare, dove e quando difendere, e così via. Se si toglie questa dimensione, si toglie la fondamentale dimensione umana che questo sport incarna.

Questioni di ruolo

La MotoGP è una competizione nata e cresciuta praticamente insieme a Valentino Rossi, che ne è stato la bandiera. Perché Valentino, come già avevo accennato, è stato un pilota eccezionale, ma anche un personaggio eccezionale. Nel bene e nel male. Talmente grande da aver fagocitato, per i media, il concetto stesso di racconto del motociclismo. La sua eredità dunque non è solo sportiva, ma mediatica.

Oggi ci si aspetta che ogni pilota sia come lui, campione in pista e personaggio carismatico fuori. Dimenticandosi, come già per le sprint race, che i piloti non recitano, competono. Sono chiamati a guidare una moto e, possibilmente, vincere. Tutto il resto è contorno. Come si comportano quando tolgono il casco, è relativo.

Se si vuole professare il motociclismo come ambiente di fratellanza e rispetto, criticare dei campioni perché a fine gara anziché prendersi a insulti e schiaffi, si stringono la mano e si abbracciano, è una stronzata.

Se si vogliono criticare le case motociclistiche, la Dorna e la FIM, per aver annacquato l’essenza di questo sport, è lecito. Ma se si vogliono criticare i piloti perché non danno spettacolo, definendoli ragazzini educati, ubbidienti e silenziosi, è stupido. I piloti sono lì per fare i piloti, non per fare i goliardici, gli estroversi, i difficili, i polemici, i provocatori. Chi non lo capisce, non cerca lo sport, cerca il tifo. Cerca la rivalità tossica, che sfocia in scontro e polemica antisportiva, come fatto notare da Mister Helmet proprio durante il gran premio di Philip Island 2022, in merito alla questione delle scie.

La MotoGP dunque, e il suo stucchevole fairplay, è sì specchio dei tempi, proprio perché il “buonismo” dei suoi protagonisti infastidisce chi vuol sentirsi libero di esprimere e assecondare atteggiamenti intolleranti, tossici e antisportivi.

Il problema non è il politicamente corretto o il marketing. Il problema è che per qualcuno, questo sport, non rappresenta più un preciso ideale di motociclismo, e un preciso modello di motociclista e sportivo. E lo rimpiange.

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